“Il Sud Sudan galleggia tra un mare di petrolio e ottanta milioni di zampe di vacca”. E’ lo straordinario dualismo di un paese che per il 98 per cento dipende dalle esportazioni dell’oro nero e per il resto si basa su agricoltura e pastorizia di sussistenza.
Quando si parla di pastori e vacche in Sud Sudan il riferimento obbligato è ai Dinka, la
tribù seminomade che corrisponde al 18% della popolazione totale e rappresenta il
maggior gruppo etnico del paese.
Alteri, solenni nella loro statuaria bellezza, i Dinka hanno dominato il conflitto con il nord Sudan e ora godono di una apparente, incontrastata rendita di posizione presso le altre etnie del Sud. Il recente conflitto scoppiato a fine 2013 li ha visti contrapposti all’etnia Nuer, ma in realtà i gruppi etnici del paese sono molto più numerosi e frammentati.
Determinante, nella cultura dinka, la
sacralità del bestiame. Le mucche sono come diamanti, usati per dote nei matrimoni e come doni pregiati per occasioni speciali. Raramente uccisi.
Le mandrie pascolano di giorno in prossimità del lago o di qualche pozza d’acqua, per rientrare al campo solo al tramonto. E’ questo il momento più intenso della giornata. Decine di piccoli cumuli fumanti cominciano a prendere vita. Una nuvola densa avvolge il campo e si mescola con la polvere sollevata dal bestiame.
Per scacciare le mosche piccoli e grandi si cospargono il volto ed il corpo con
cenere di sterco bruciato. Le donne rimaste al campo durante il giorno setacciano la farina per la cena in un’elegante danza, mentre anche i più piccoli aiutano a pestare il sorgo nei mortai.
Aker, Makuru, Achok,
ogni mucca ha il suo nome, più di cento le parole per distinguere i bovini a seconda del colore, di una sfumatura, della stazza. E dalla mucca il nome si trasmette alle persone, quasi a sancire un legame di sangue con questi animali.
Anche i medici Cuamm che sono a Yirol da più tempo sono chiamati dai locali con un nome di mucca. È il riconoscimento più grande da parte della comunità.